09/01/14

Il secolo dell'immaginazione

I testi del ciclo di conferenze "Corrispondenze estetiche" che si tengono allo Spazio vivo Heart.

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Il secolo dell’immaginazione
di Alessandra Galbusera 

Il Settecento viene comunemente inteso come il secolo della ragione. Se pensiamo infatti a Che cosa è l’Illuminismo di Kant (1784) vero e proprio manifesto del secolo, è evidente come gli intellettuali si schierino dalla parte della ragione e di un suo trionfo. «L'Illuminismo, afferma Kant, è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo».

Tuttavia, esiste un altro modo di interpretare questo secolo. Nel Settecento l’estetica si afferma come disciplina filosofica e con essa si stabilisce definitivamente l’elogio non della ragione, ma l’elogio della conoscenza che deriva dai sensi, che deriva dall’immaginazione.
Se, infatti, il Settecento è debitore della filosofia di Cartesio e di un consecutivo scetticismo verso la sensazione, l’atteggiamento che ne consegue, in particolar modo nel campo dell’estetica, è un voler indagare la sensibilità e quel genere di conoscenza che da essa deriva.
Pertanto, una volta stabilito che la conoscenza sensibile è una conoscenza confusa e poco chiara, ciò non porta una sfiducia della sensibilità anzi, ciò porta a definire la sensibilità come il potere dell’anima, il potere psicologico che può spingere verso l’errore o verso la verità, ma in ogni caso verso una forma di conoscenza.

Primo fra tutti a stabilire che la conoscenza dei sensi debba essere oggetto di studio di una scienza e che tale scienza sia l’estetica fu Gottlieb Baumgarten. Noto come padre fondatore dell’estetica, stabilisce con la pubblicazione del volume Aesthetica del 1750 una dignità scientifica della sensibilità e, contemporaneamente, definisce l’estetica come disciplina filosofica autonoma.
Prima di allora in molti si erano interessati di problematiche estetiche, ma sempre come derivato di un sistema filosofico più ampio, mai come ragionamento di una specifica disciplina. Con Baumgarten, invece, si afferma che «l’estetica (ovvero teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare bello, arte dell’analogo della ragione) è la scienza della conoscenza sensitiva».

Riportando solo questa citazione risulta evidente l’atteggiamento rivoluzionario. Per la prima volta l’estetica è definita scienza il cui campo di indagine è la sensibilità. Da notare, inoltre, ciò che Baumgarten mette fra parentesi, vale a dire i sinonimi dell’estetica, definizioni anch’esse rivoluzionarie. L’estetica è detta teoria delle arti, forma di conoscenza inferiore (alla logica spetta il ruolo di gnoseologia superiore), il suo campo di analisi è la bellezza, infine è l’analogo della ragione. E proprio su quest’ultimo punto troviamo la chiave di lettura più significativa. Come si affermava all’inizio, se la filosofia del  Settecento indica nella facoltà della ragione la propria specificità, l’estetica si sofferma ad indagare l’analogo della ragione, ovvero la facoltà della sensibilità, vale a dire l’immaginazione per donare ai dati che da essa derivano una dignità scientifica.

Ora l’immaginazione è la facoltà dell’estetica. Domina il campo della conoscenza sensibile così come la ragione domina il campo della logica. È  l’analogo della ragione non l’opposto e il suo campo d’analisi è l’arte e la bellezza. 
Quel che è da notare quindi è che con Baumgarten l’estetica diventa scienza, ma soprattutto essa si avvale di una facoltà, l’immaginazione, in grado ordinare i dati che derivano dai sensi. Questa volontà di individuare la facoltà dell’estetica e la sua corrispondente funzione segna un atteggiamento tipico degli intellettuali del secolo. Non a caso tra il 1711 e il 1712 Joseph Addison pubblica per il quotidiano the Spectator I piaceri dell’immaginazione e sin dalle prime righe si nota una sua volontà di ricercare una facoltà intorno alla quale organizzare la bellezza sensibile.

Ovviamente Addison riconosce nell’immaginazione questa facoltà e le attribuisce un’operatività che si determina grazie ai piaceri che l’uomo prova di fronte alla bellezza. In altre parole Addison lega l’immaginazione ai poteri soggettivi dell’uomo e, seppur questo non sia una novità (già Plotino e Ficino attribuivano alla bellezza la capacità di condurre i sensi verso la ragione), la novità della riflessione di Addison è quella di intendere l’immaginazione come un piacere attivo cioè come una facoltà di recepire, riconoscere la bellezza per poi riprodurla. Per questo l’immaginazione è da intendersi come l’analogo della ragione: essa è un potere di riconoscimento del bello, una facoltà di gusto e possibilità di una sua creazione, una facoltà di genio.

Inoltre, il definire l’immaginazione come facoltà in grado di attribuire regole al sensibile, di riconoscerne le qualità, come la bellezza, e infine di poterle ricreare indica il vero e proprio punto di svolta del pensiero settecentesco.
Se, infatti, consideriamo secondo queste linee interpretative l’arte settecentesca, ci rendiamo conto di come le opere d’arte di questo secolo siano state fondate su di un pensiero rivoluzionario e profondo. Prendendo in considerazione il neoclassicismo come movimento artistico-culturale tipico del settecento, è possibile interpretare le opere d’arte secondo questa lettura.
Come è noto il fondatore del neoclassicismo fu Johann Joachim Winckelmann il cui pensiero filosofico si fondava sulla convinzione che il mondo degli antichi, il mondo degli antichi greci, costituisse il culmine della perfezione artistica. Egli sosteneva una miticizzazione del mondo greco e cercava nelle rovine, nei reperti d’arte antica, i modelli di un’arte da far rinascere perché «per noi, l'unica via per divenire grandi e, se possibile, inimitabili, è l'imitazione degli antichi».

Riferendosi in particolar modo al Laocconte Winckelmann sottolinea come la grandezza degli antichi greci sia stata quella di aver trasmesso una nobiltà d’animo attraverso l’equilibrio della resa espressiva e della resa plastica dell’opera d’arte. Il gruppo marmoreo, infatti, seppur rappresenti il sacerdote troiano in procinto di morire insieme ai propri figli, non cede alla resa espressiva del dolore a salvaguardia dei canoni di bellezza.
Ora, senza addentrarci nel dibattito che nasce da una simile interpretazione (basti pensare a Lessing e al suo Laocoonte, ovvero sui confini tra pittura e poesia, 1766), è necessario spingere l’analisi verso il vero e proprio atteggiamento rivoluzionario che determina il flusso dell’estetica stessa.

Se l’opera d’arte rappresenta l’attimo prima in cui il volto del Laocoonte si trasformi in una maschera di dolore, la motivazione non va ricercate nel solo rispetto dei canoni di bellezza. Esiste, invece, un’altra ragione che svela la profondità estetica dell’estetica settecentesca. Il non rappresentare il dolore si spiega come un voler enfatizzare la drammaticità della rappresentazione stessa. Il non rappresentare il tragico evento, implica che sia lo spettatore (istruito poiché conosce il mito in questione) a completarlo, a sentire dentro di sé il dolore del Laocoonte che muore vedendo i propri figli morire. E questo avviene proprio perché si riconosce all’immaginazione il ruolo di facoltà che guida la realizzazione di un’opera d’arte e, contemporaneamente, la sua corretta fruizione.

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Seguendo quindi queste direttive ci è facile pensare alle opere di Antonio Canova. Massimo esponente del neoclassicismo, egli interpreta i principi teorici espressi da Winckelmann e riconosce negli antichi l’unica via per la grandezza artistica. Tuttavia, le sue sculture, realizzate in marmo bianco, modellate in modo estremamente armonioso, si presentano come oggetti puri ed incontaminati, oggetti di una bellezza ideale, universale ed eterna perché sospendono la rappresentazione stessa. Le sue sculture rappresentano sempre allegorie mitologiche, quindi qualcosa che il comune spettatore conosce, per permettergli il completamento emotivo di ciò che osserva.

Amore e Psiche, per esempio, meglio incarna questo atteggiamento estetico-artistico. Le anatomie sono perfette, i gesti misurati, le psicologie sono assenti o silenziose, le composizioni molto equilibrate e statiche. Ma il momento scelto per la rappresentazione è il “momento pregnante”. I due amanti sono rappresentati un attimo prima di baciarsi. È un momento di quiete assoluta in cui il tempo si congela per sempre e spetta proprio allo spettatore di completare l’evento. Cogliere la drammaticità di ciò che non accade nel marmo, ma che accade nel mito e nella sfera emotiva di chi osserva.

L’arte di Canova, ma più in generale l’arte del Settecento è quindi un’arte tesa all’espressione di un sentimento che stimola l’immaginazione di chi crea e di chi osserva. È un’arte dell’immaginazione ove ciò che conta non è la conoscenza logica, ma è la sensazione, l’emozione che sorge da un’opera d’arte.
Inoltre, tutto ciò diventa per la prima volta nel corso dei secoli oggetto di studio di una scienza, l’estetica. Per la prima volta i dati confusi e poco chiari della sensibilità e dell’immaginazione sono degni di analisi poiché si riconosce all’estetica l’autonomia e la dignità di una disciplina scientifica.